a cura di: Professor Massimo di Giannantonio – Dottor Giuseppe Di Iorio
La Rete, per quanto sia universalmente percepita come un utile e veloce strumento di ricerca e comunicazione può, in certi casi, rappresentare lo scenario di gravi comportamenti di dipendenza. La ricercatrice americana K. Young, nel 1996, è stata la prima ad individuare i segnali di una potenziale dipendenza dal WEB delineando i criteri diagnostici per l’I.A.D. (“Internet Addiction Disorder”). Tale disturbo si manifesterebbe attraverso un controllo compulsivo della propria mail; sessioni di connessione vengono anticipate rispetto al momento previsto; lamentele dei familiari/ amici per le ore che l’individuo spende on-line e/o per il denaro speso on-line; cambiamenti drastici nello stile di vita per avere più tempo per stare in rete; diminuzione complessiva dell’attività fisica; diminuzione della socializzazione; ritiro sociale off-line (K. Young, 1996).
Ma non tutti concordano nel definire l’Internet Addiction Disorder un disturbo indipendente e come tale degno di una propria connotazione nosografica. Secondo i sostenitori di quest’ipotesi le varie forme di IAD sarebbero solo manifestazioni diverse, alternative e, per certi versi, moderne e contemporanee di alcuni “vecchi” disturbi, primi fra tutti quelli dello spettro fobico ed ansioso-depressivo. Rispetto a quest’ultimi gli internet abusers potrebbero esprimere il bisogno di inventarsi un rifugio, una nicchia a-spaziale e a-temporale nella quale nessuno può essere scovato e svergognato, un luogo seminascosto da cui osservare senza essere visti e da cui gestire le relazioni in un modo più sostenibile. Ma cosa accade se ci si perde, se si perde il punto di partenza e la strada per tornare indietro? Accade che si resta intrappolati in un mondo apparentemente rassicurante ma in realtà, incorporeo, alienante, fatto di relazioni e identità virtuali, dove un autentico incontro con l’ “Altro” è sostanzialmente impossibile. Le conseguenze sulla vita psichica possono essere devastanti. è il caso del fenomeno denominato hIkIkOMORI. Il termine descrive una psicopatologia giapponese e, al contempo, un caso sociale nel quale il soggetto (per lo più adolescente) si ritira completamente dalla società (Asuka Kayama et al., 2008).
La parola Hikikomori significa isolarsi, chiudersi, chiudersi, ritirarsi; la traduzione in inglese coniata da Saito Tamaki nel 1998 è “social withdrawal”, vale a dire ritiro sociale (Saito T., 1998). Nei casi più gravi l’hikikomori non esce dalla sue stanza né per lavarsi, né per alimentarsi chiedendo che il cibo gli sia lasciato dinanzi alla porta di accesso alla stanza (E. Aguglia et al., 2010). I giovani adolescenti che praticano hikikomori sono per oltre il 90% di sesso maschile e di estrazione sociale solitamente medio-alta (Saito Tamaki, 1998). Le ragioni del fatto che i giovani maschi siano i portatori principali di tale disturbo si trova nella struttura della società nipponica. Nella famiglia tradizionale giapponese, chiamata “ie”, era, infatti, il figlio maggiore ad essere il successore e a lui spettava l’eredità. Dopo la seconda guerra mondiale la legge è cambiata e la struttura familiare ie è stata abolita ma il concetto è rimasto lo stesso: il figlio maggiore viene preparato ad assumere la responsabilità della famiglia (Saito, 2002). Attualmente gli adolescenti che si ritirano in hikikomori in Giappone sono più di un milione (vale a dire il 2% dei giovani e l’1% dell’intera popolazione). Le caratteristiche richieste per definire la discesa in hikikomori sono: 1 ritiro sociale da almeno sei mesi; 2 fobia scolare precedente e ritiro scolastico; 3 ritiro dalle attività lavorative; (talvolta) Internet Addiction Disorder; 4 inversione dei ritmi circadiani. Inoltre il paziente hikikomori, il giovane auto-segregato, è sintonico col suo progetto, non si aspetta aiuto da nessuno e non ha, paradossalmente, alcun bisogno di aiuto (A. Piotti, 2008). L’isolamento a cui aderiscono i giovani nipponici si protrae per periodi molto prolungati che variano da alcuni mesi a diversi anni, talvolta dieci o più. Nonostante il soggetto non parta da una condizione di svantaggio mentale e l’auto-reclusione non sia considerata di per sé una malattia, l’isolamento autoindotto prolungato provoca diverse sequele psichiche quali antropofobia (cioè la paura degli altri studenti, delle persone anziane e di non poter prendere l’autobus o il treno etc.), paranoia, disturbi ossessivocompulsivi, depressione, agorafobia (la paura degli spazi aperti), apatia, inversione del ritmo circadiano, e comportamento regressivo (E. Aguglia et al, 2010). In certi casi, infatti, gli hikikomori emettono una voce infantile e cercano continuamente la presenza della madre, la vogliono toccare e averla sempre vicino. I giovani che vanno in hikikomori, numerosissimi in Giappone, sono relativamente meno rappresentati nelle altre civiltà evolute, tuttavia negli ultimi anni sono stati registrati casi simili in Cina, Corea e negli Stati Uniti e persino in Italia (E. Aguglia, 2010). La deduzione è che, pur rimanendo la matrice di questo comportamento direttamente connessa con alcuni valori e peculiarità dello stile di vita giapponese, l’epidemia sia destinata a diffondersi anche attraverso forme differenziate o sub-sindromiche.
Ma se, nella cultura giapponese, competitiva a tutti i livelli ed imperniata sui valori della dignità e dell’onorabilità, è piuttosto facile essere colti da uno sguardo sprezzante che rimandi ad un adolescente il senso di una vergognosa inadeguatezza, come si spiega la diffusione dei comportamenti hikikomori anche alle nostre latitudini? Cosa accomuna le giovani generazioni nipponiche con quelle delle società occidentali contemporanee? Si tratta forse di un effetto collaterale della globalizzazione culturale? La mia idea è che Internet potrebbe rappresentare una sorta di “uscita di sicurezza” verso le difficoltà che tutti gli adolescenti, chi più chi meno, e in modi simili a tutte le latitudini, affrontano in questa fase della vita. Una strategia di risoluzione dei disagi adolescenziali che, al pari delle altre, se usata in modo scorretto, può diventare disfunzionale fornendo “soluzioni patologiche” a “problemi fisiologici”. Mi riferisco al fatto che Internet avrebbe la capacità di sostituirsi completamente alla realtà sociale permettendo di vivere a proprio modo, secondo le proprie regole, conciliando i desideri e le fantasie inconsce e preservando dal pericolo di doversi vergognare della propria inadeguatezza. A tal proposito ci sembra arguta e pertinente l’ipotesi di G. Pietropolli Charmet che individua negli adolescenti contemporanei di tutte le latitudini una tendenza a sostituire l’antico senso di colpa edipico con il sentimento di vergogna narcisistica. Secondo questo autore la vergogna è una “reazione” legata alla concezione che l’individuo ha della propria immagine pubblica nel momento in cui è osservato o crede di esserlo. Chi prova vergogna, il più delle volte, si vede impotente nei tentativi di smantellare e contrastare la propria immagine disprezzata. Nella sua mente l’antidoto a tale sentimento è quello di svanire dalla situazione vergognosa. Sentimenti di vergogna e timori di essere svergognati pervadono spesso l’esperienza soggettiva degli adolescenti e la segregazione sembra essere una soluzione per proteggersi dallo sguardo dell’Altro (G. Pietropolli Charmet, 2003). L’adolescenza è un periodo nel quale le emozioni vengono amplificate, vissute come totalizzanti e a volte insostenibili, al punto che si preferirebbe sparire dalla vista del mondo. Internet lo permette e, in molti casi, in modo irreversibile. è quanto accade ai cybernauti più fragili facilmente risucchiati nei vortici dell’IAD che, in particolari condizioni psico-socioambientali, possono inabissarli fino alle oscure segrete degli hikikomori.