Durante la giovinezza ero solito trascorrere i mesi delle vacanze estive con la mia famiglia, tra le colline di Valdobbiadene, patria del Prosecco. Da studente universitario gran parte del mio tempo libero veniva equamente distribuito tra la frequentazione dei reparti di Chirurgia, Medicina e Psichiatria dell’Ospedale di zona e le numerose cantine che producevano vino. I reparti erano in gran parte affollati da alcolisti, quasi sempre cirrotici o usciti di senno per via di un delirium tremens. Allora era pressoché unanime l’opinione che chi beveva lo faceva per risolvere dei gravi problemi psicologici, solo curando i quali egli avrebbe potuto sperare di smettere. Tale opinione era certamente influenzata –mi riferisco agli anni ’70 – dalla psicologia freudiana e dalle sue derivazioni, che in quel periodo sembravano aver conquistato un nuovo monopolio intellettuale nello studio della mente, soprattutto nella psichiatria nordamericana, allora punto di riferimento ineludibile per la maggior parte degli psichiatri. Anch’io rimasi affascinato da quelle teorie, tanto da decidere di sottopormi in quel periodo ad un lungo trattamento psicoanalitico nella speranza di riuscire a curare più efficacemente i pazienti ai quali andavo, giorno dopo giorno, sempre più affezionandomi. L’analisi migliorò decisamente la qualità della mia vita, ma essa lasciò del tutto indifferenti i “miei tossici” che continuarono a comportarsi né più né meno come prima. Cominciai allora a sospettare che la psicoterapia non solo non fosse in grado di aiutare le persone a smettere di drogarsi, ma che essa poteva in molti casi risultare addirittura controproducente favorendo, invece di ridurlo, il rischio di una ricaduta.
Piano piano si fece strada in noi dell’equipe la consapevolezza che doveva esistere una dimensione neurobiologica, precedente quella mentale, con la quale avremmo dovuto confrontarci, se volevamo cercare di “guarire” i nostri pazienti. I problemi psicologici di un tossicodipendente attivo non apparivano espressione di una difficoltà personale, ma essi andavano imputati prevalentemente all’uso delle sostanze. Solo in questo modo riuscivamo a spiegarci quel che osservavamo, con sempre maggior frequenza, durante la nostra pratica clinica quotidiana. Solo così riuscivamo a spiegare i cambiamenti presentati dalla maggior parte dei nostri pazienti, fin dai primi giorni successivi alla disintossicazione. In molti casi sembrava di assistere ad una vera e propria metamorfosi. Le ansie dei pazienti in fase attiva, le loro depressioni, le loro insonnie, i loro numerosi disturbi, in apparenza psicologici, andavano sciogliendosi come neve al sole nelle settimane successive alla disintossicazione stessa, portando alla luce un comportamento “nuovo”, positivo e, per molti aspetti, inatteso.
Circa un anno fa prendemmo in cura, inviatoci da un gruppo di auto aiuto, un signore di 52 anni, sposato, con due figli e un nipotino nato di recente. Di professione infermiere, da poco in pensione, da almeno 30 anni beveva molto e da almeno 20 la sua vita era diventata un inferno. Tutti i tentativi fatti dalla famiglia per far smettere di bere il paziente si erano rivelati inutili: inutili i ricoveri, le frequentazioni dei gruppi di auto aiuto, le esortazioni e le minacce che moglie e figli facevano di continuo. Lo scetticismo dei familiari era giunto ad un punto tale che quando, pochi giorni dopo l’inizio del trattamento, le cose cominciarono a migliorare essi, per molto tempo, si rifiutarono di crederci. Ma anche il paziente era profondamente stupito di se stesso, da quella voglia di bere che era andata sempre più diminuendo, senza che alla sua volontà fosse stato richiesto uno sforzo particolare. Dopo un anno di cure, prevalentemente farmacologiche, oggi ridotte a qualche compressa al giorno, “nacque” una persona nuova, solo di recente accettata, in quanto tale, anche dai suoi cari.
Le cose non andarono molto diversamente per un giovane paziente che nella sua vita non aveva mai dimostrato un interesse particolare per l’alcol. La sua attenzione si era rivolta, in maniera sempre più massiccia, esclusivamente alla cocaina. Lo prendemmo in cura tre settimane fa, all’età di circa 30 anni, sposato e con tre bambini piccoli. Lavorava con il suocero in un’attività commerciale, lavoro che sapeva condurre molto bene. Ci fu inviato da una collega psichiatra, alla quale si era rivolto per i numerosi problemi psicologici che, soprattutto negli ultimi due anni, – come confermò la moglie – rese pressoché invivibile la loro vita, sia in famiglia, sia nell’ambiente di lavoro. Il paziente appariva sempre più teso, frettoloso, irritabile ed aggressivo. Non riusciva a star seduto più di 10 minuti di seguito, né quando pranzava né quando parlava con qualcuno. Era un’anima in pena, che da molti anni non dormiva quasi più la notte, costretto ad alzarsi continuamente. Con frequenza, ormai settimanale, spariva il pomeriggio per far rientro all’alba del giorno successivo, distrutto dalla stanchezza e dall’intossicazione di cocaina. Di quì la decisione, subìta dal paziente, di ricorrere ad un aiuto psicologico, per i numerosi problemi mentali che andavano aggravandosi: dall’insonnia, all’irritabilità, dall’ansia alla depressione. Iniziammo il trattamento farmacologico che, normalmente, utilizziamo nei casi di dipendenza da cocaina. Sia la moglie che il paziente rimasero molto perplessi al nostro rifiuto di iniziare la psicoterapia che si attendevano; essi però si dovettero arrendere di fronte alla nostra determinazione.